L'architetto è un muratore che ha studiato il latino
Nella raccolta di saggi “Ins Leere gesprochen” (“Parole nel vuoto”) Adolf Loos, nell’affermare che la nostra educazione poggia sulla cultura classica, riporta la seguente definizione:
“L’architetto è un muratore che ha studiato il latino”.
Posso dire, senza ombra di dubbio, come “l’incontro” con questo autore austriaco e grande architetto del movimento moderno, avvenuto sin dai miei primi studi universitari, abbia condizionato gran parte delle scelte che ho operato durante lo sviluppo del mio percorso professionale e come, ancora oggi, mi accorga di quanto questa felice definizione costituisca per me un punto di riferimento nello svolgimento della mia attività.
L’immediatezza e la spontaneità dell’espressione dell’autore trovano in realtà una conferma nel significato etimologico della parola “architetto”, dal greco antico arkitecton, composta dai termini àrche (principio, primo, capo) e técton (creare, inventare, costruire) che richiama quindi al significato di “capo inventore” e, contemporaneamente, a quello di “capo costruttore”.
In técton, infatti, il termine “creare” fa riferimento sia al processo di invenzione che, contestualmente, all’atto del costruire: pensiero e manualità quindi, consapevolezza teorica e capacità di esecuzione.
In questo senso ho sempre ritenuto la lingua (guarda caso) tedesca, con il termine Die Baukunst (letteralmente “l’arte del costruire”, sinonimo di Architektur, ma molto più efficace) quella che maggiormente sia riuscita a cogliere l’essenza del significato della parola “architettura”, nell’accezione che ci è giunta (guarda caso ancora) dalla cultura e dall’educazione classica.
Se pertanto, in architettura, non vi è arte senza fare tecnico e se è vero quindi che il costruire si configura, in definitiva, come l’essenza concreta, l’applicazione e la finalità ultima del pensiero stesso, mi è parso di conseguenza indispensabile, lungo il cammino, dare maggiore corpo e sostanza alla mia formazione applicandomi nel campo della costruzione e della realizzazione dell’opera. Una esperienza che consiglio a tutti quegli architetti che come me, dopo il “latino” appreso ed assimilato durante la formazione scolastica ed universitaria, abbiano il desiderio, la volontà e (aggiungerei) l’umiltà di ricondurre l’esercizio della professione alla definizione “loosiana” e “classica” del termine.
Certo,tutto è profondamente diverso da quel tempo: lo sviluppo della tecnologia e della scienza ha profondamente modificato i sistemi di produzione e di costruzione, l’uso e l’applicazione dei materiali; il continuo aggiornamento della normativa tecnica impone costantemente nuove regole in fase di controllo del processo di edificazione; i moderni sistemi di comunicazione e rappresentazione hanno radicalmente stravolto la pratica e l’esercizio della nostra professione; la società ci richiama, con sempre maggior frequenza, ad interpretare e dare risposta a nuovi bisogni ed opportunità; la variabile “tempo” ha assunto connotati sempre più pressanti e determinanti.
Forse, nonostante tutto l’indubbio progresso, ci troviamo spesso confusi e smarriti davanti alla consapevolezza della difficoltà di controllare pienamente la complessità dell’intero processo e sicuramente, lungo il percorso, il rischio è quello di perdere anche pezzi importanti delle buone regole del costruire.
Fare il “muratore”, oggi, appare molto più difficile e complicato che non studiare il “latino”.
Resto comunque profondamente convinto che ciò che non possa cambiare sia la finalità stessa dell’architettura, ossia la (buona) costruzione, la fermata alla quale il treno che conduce il carico delle nostre esperienze e competenze si arresta e ci impone, di volta in volta, una attenta verifica dei risultati ottenuti.
Il controllo del processo di esecuzione costituisce, in questo senso, un passaggio nodale nel lungo percorso che unisce pensiero e realizzazione, inevitabilmente dinamico e pertanto profondamente impegnativo, ma allo stesso tempo profondamente affascinante dal momento che, come afferma nei suoi scritti F .L. Wright :
“Non si può distinguere il processo compositivo da quello costruttivo giacché il progetto viene terminato in cantiere”.